1. Premessa
La dottrina del rapporto tra verità e conoscenza, ed in particolare della veritas rerum di San Tommaso d’Aquino, è centrale nel segnare la differenza fondamentale tra il realismo e le filosofie di matrice idealistica.
Secondo San Tommaso, infatti, la mente umana è soggetta alla realtà, scopre la verità delle cose e nel far ciò scopre qualcosa di Dio.
Il nostro intelletto e le cose sono collegati l’un l’altro.
Partendo dalla nozione di verità è possibile approfondire il significato sia di verità delle cose sia di verità formalmente considerata che prende il nome di verità logica; Questo passo è fondamentale per analizzare le diverse fasi associate al processo conoscitivo: conoscenza sensibile, semplice intellezione e giudizio.
E’ proprio in questo ultimo che, come si vedrà, la verità trova il suo senso pieno.
2. La nozione di verità
La domanda “che cosa è la verità?” ha attanagliato i filosofi di tutte le epoche.
Le risposte sono state molto varie ma in tutte è presente un elemento comune messo in evidenza dalla metafisica classica: la verità è intesa come l’adeguazione della cosa e l’intelletto: “adaequatio rei et intellectus” [1]
Ciò comporta che l’adeguazione o conformità tra cose e intelletto sia l’essenza della verità e, in più, con questa definizione possiamo esprimere tutti i significati che la parola verità può assumere.
Come a lui specifico, San Tommaso arriva a tale definizione in modo scientifico ed in perfetta armonia con le proprie tesi di metafisica realista.
Egli parte dal concetto di ente inteso come ciò che l’intelletto percepisce per primo: primum cognitum.
L’ente e la verità sono convergenti - ens et verum convertuntur - cioè l’ente equivale al vero in quanto, visto che tutta la realtà è conoscibile, ogni ente può essere conosciuto dall’intelletto.
Vero ed ente, però, pur significando la stessa cosa la rappresentano in modo diverso. Coincidono materialmente (res significata), ma hanno significato (ratio) diverso (modus significandi). La verità aggiunge all’ente la caratteristica, a lui non estranea, dell’intelligibilità; aspetto, questo, che non si manifesta nella semplice parola ente.
La verità quindi può essere rappresentata dalla relazione tra l’ente e l’intelletto.
Ma come può un ente trascendente relazionarsi con l’intelletto che è una realtà determinata? Per il motivo che anche l’intelligenza può essere considerata, in un certo senso, trascendentale e da questo concetto muoverà tutto lo sviluppo del pensiero occidentale: “l’anima è in un certo modo tutte le cose” [2].
Per tornare al concetto di conformità si può affermare che essa esiste in quanto non vi può essere il concetto di verità senza il concetto di ente, in altri termini la verità rende esplicito l’ente.
La conformità, in questo caso, non è intesa in termini materiali; infatti quando si conosce una cosa ci si adegua ad essa in modo immateriale.
L’intelletto cioè quando conosce una cosa, non la conosce nello stesso modo in cui l’anima informa il corpo circa la forma della cosa in questione.
Infatti non bisogna credere che nella mente ci sia una copia della cosa conosciuta perché, se così fosse, la verità risiederebbe nell’adeguare una cosa esterna ad un’altra cosa interna. Questo condurrebbe alla necessità di un terzo fattore nel quale poter riconoscere che i primi due sono adeguati l’uno all’altro, ma da questo procedimento non si uscirebbe più.
Quindi la conformità veritativa è un’adeguazione conoscitiva. Ciò deriva proprio dall’intendere il concetto di verità come adeguazione, in quanto il conformarsi dell’intelletto con la cosa conosciuta non è una semplice somiglianza ma una vera e propria identificazione nella quale l’intelletto che conosce e la cosa conosciuta diventano intenzionalmente una cosa sola [3]. L’intelletto, pertanto, non ha un unico modo di essere ma può diventare ciò che le varie cose conosciute sono.
L’adeguazione veritativa è una relazione intenzionale tra l’intelletto e l’essere ma è l’essere che regge l’intelletto, è quindi l’intelletto che si conforma alla realtà delle cose.
Da ciò si evince che l’ente, la realtà, è il fondamento della verità: “l’entità di una cosa precede la ragione di verità” [4].
Possiamo quindi definire la conoscenza come “vera” in quanto manifestazione dell’essere e pertanto effetto del rapporto tra la cosa e l’intelletto ma, nello stesso tempo, possiamo definire “veri” anche gli enti in quanto causando la verità ne sono il fondamento.
Possiamo perciò riassumere dicendo che si può parlare di verità in tre sensi fondamentali:
verità delle cose (causa dell’adeguazione);
conformità dell’intelletto con la cosa (adeguazione presente per se stessa);
conoscenza vera (rispetto all’effetto dell’adeguazione).
Da tutto ciò deriva che le cose possono essere vere solo in relazione all’intelletto.
Quindi è vero che l’ente è fondamento della verità ma è altrettanto vero quello che afferma San Tommaso: “la verità si trova principalmente nell’intelletto” [5].
Ma ammettere che la verità risiede principalmente nell’intelletto potrebbe far dubitare dell’unicità della verità e far credere che possano esistere tante verità per ogni singolo caso di giudizio, ma non è così; le due tesi infatti sono perfettamente compatibili e per provarlo basta pensare che il concetto di verità è un concetto analogo, cioè l’attribuzione di un termine alle diverse cose avviene seguendo un ordine di priorità e posterità.
Quando si conosce, ciò che conosciamo si trova, formalmente, nel conoscente. Pertanto è vero che la verità si trova nelle cose ma, in sè stessa e come effetto, essa è nella mente; perciò, per poter dire che una cosa è vera, essa deve avere la sua adeguazione con l’intelletto.
Per chiarire tale concetto bisogna considerare la verità in relazione ai vari tipi di intelligenza. Essi sono così classificabili:
intelligenza umana a sua volta suddivisa in: intelligenza pratica ed intelligenza speculativa;
intelligenza divina.
L’intelligenza umana pratica è ciò che produce le cose artificiali e che misura la loro verità; l’artefatto è tanto più vero quanto più c’è adeguazione tra esso ed il modello ideale della mente.
L’intelligenza speculativa invece deve alle cose la conoscenza che possiede pertanto sono le cose stesse a dare la misura della verità dell’intelligenza teorica.
L’intelligenza divina misura ed è misura di tutte le cose (mensurans non mensurata), visto che è da essa che tutto trae origine.
Le cose naturali sono misurate dall’intelletto divino e a loro volta misurano l’intelletto umano (mensurata et mensurans).
A tal proposito San Tommaso osserva [6] che la somiglianza dell’uomo con Dio “risiede soprattutto nella sua intelligenza speculativa, in quanto il suo rapporto con l’oggetto della sua conoscenza è simile al rapporto che Dio intrattiene con la sua opera” [7].
Nell’ideologia moderna e contemporanea si tende ad esaltare l’intelligenza pratica dell’uomo come depositaria della verità, facendo perdere a quest’ultima la caratteristica composita della concezione classica.
Il pensiero occidentale inoltre è stato pervaso dal concetto che la verità è rendimento, efficacia, successo.
Questa perdita dell’essere porta inevitabilmente ad una perdita del senso della verità inteso come insieme delle cose che sono in relazione con Dio, in quanto da Lui create, e con l’uomo in quanto da lui conosciute.
In sostanza, come dice San Tommaso, una cosa naturale si dice vera in quanto soggetta a due adeguazioni, una con l’intelligenza divina e una con l’intelligenza umana.
In tale ottica metafisica la verità risiede nell’intelletto divino in modo proprio e primario, in quello umano in modo proprio e secondario e nelle cose in modo improprio e secondario, dato che la verità risiede nelle cose solo in relazione alle altre due.
La conoscenza delle cose da parte dell’intelletto umano non costituisce le cose stesse in ciò che sono; infatti, il loro essere non dipende dal fatto che l’uomo le conosce, esse esisterebbero comunque, chi crede il contrario non vuole accettare la condizione umana di creatura.
La verità delle cose, invece, in relazione all’intelletto divino appartiene alle cose in modo inseparabile, nulla esisterebbe senza l’intelligenza divina che le crea. Anche per l’uomo vale la stessa condizione.
Quando si dice che la verità si trova principalmente nell’intelletto si intende quello divino. L’intelletto divino, infatti, è la causa di tutte le cose mentre quello dell’uomo ne è l’effetto. La verità delle cose è una partecipazione alla verità infinita di Dio, del Deus Veritas come diceva Sant’ Agostino: “noi conosciamo le cose perché sono, ma esse sono perché Tu le conosci”.
L’essere di Dio riassume in sé tutte le perfezioni trascendentali: Egli è il Bene, l’Unità, la Bellezza, la Verità nella loro pienezza.
L’intelligenza divina è la prima e somma verità in quanto Dio è origine di ogni verità perché è il principio dell’essere di tutte le cose.
Tuttavia per l’intelligenza umana vi sono molte verità perché tanti sono gli enti veri e tante le intelligenze che li conoscono, bisogna quindi cercare di conoscere sempre nuove verità per potersi sempre più avvicinare alla verità di Dio.
3. La Verità e l’Ente.
Si deve evitare di considerare vere le cose per la loro relazione con l’intelligenza, infatti tale tesi si riferisce solo alla ragione formale della verità, se noi invece consideriamo l’ordine di fondazione vediamo che la verità è causata dalle cose.
La verità nasce nel momento nel quale le cose sollecitano l’intelligenza, le danno informazioni e tale circolazione finisce nell’anima di chi conosce in quanto la cosa è conosciuta a secondo del modo di essere di chi conosce.
Schematizzando:
movimento della facoltà conoscitiva dalle cose → alla mente;
movimento della facoltà appetitiva dalla mente → alle cose [8].
Per Aristotele, infatti, questo movimento è un circolo in cui: le cose sollecitano l’intelletto, l’intelletto sollecita l’appetito e l’appetito riporta alle cose [9].
Quindi la realtà causa la verità nell’anima e tale verità non dipende dall’intelletto ma dal fatto che le cose esistono e perciò conoscere vuol dire portare nell’intelletto la cosa così come essa è nella realtà.
Giustamente nella definizione classica si parla di adeguazione dell’intelletto con la cosa e non con l’oggetto perché l’oggetto non esaurisce la realtà di ciò che si conosce ma è solo ciò che coglie chi guarda (soggetto).
Questa distinzione dialettica è stata molto dibattuta dagli idealisti “oggettivi” che affermano che si possono conoscere solo gli oggetti in quanto le cose non hanno una realtà per se stesse ma esistono solo nella relazione immanente soggetto-oggetto.
Tornando a ciò che afferma la metafisica realista la cosa non può ridursi ad oggetto.
L’oggetto è la cosa conosciuta della quale, però, non riesce a cogliere completamente ciò che è; l’intelletto, infatti, non può cogliere totalmente il contenuto della cosa reale perché la realtà è inesauribile e, per quanto si cerchi di apprendere, non si riuscirà mai a scoprire il mistero della sua esistenza.
Che cosa si intende dunque con il termine cosa? Sicuramente l’essenza di ogni ente; cioè cosa è.
Quindi è una cosa tutto ciò che ha uno stato compiuto e stabile in natura ma, siccome rappresenta anche l’ente in quanto ha un’essenza reale, si riferisce anche all’atto di essere.
Ed è proprio sulla base della costituzione dell’ente come essenza e atto di essere (esse), che San Tommaso afferma: “la verità si fonda sull’atto di essere delle cose più che la sua quiddità, così come il termine ente si impone a partire dall’esse” [10].
L’esse come atto è il fondamento della verità, è la radice della verità delle cose, è l’ultimo punto di riferimento della verità della conoscenza. Cioè ogni conoscenza può arrivare a cogliere l’essenza dell’ente ma termina quando arriva all’essere delle cose, l’esse rei. L’esse rei è, quindi, la causa del giudizio vero che la mente formula sulla cosa [11].
La verità si fonda, quindi, sull’ente:”veritas supra ens fundatur”[12]. Il vero è un modo di essere dell’ente e rappresenta un fattore comune a tutta la realtà che però non si esprime direttamente nel termine ente ma nella relazione con l’intelletto.
La prima nozione che noi sappiamo delle cose è che esse sono. Quindi il concetto di ente è il primo che si apprende, senza sapere ciò non si potrebbe conoscere nulla, ogni altra conoscenza è successiva.
L’ente è conoscibile in quanto è ente, e non è ente in quanto è conoscibile.
Una cosa si può conoscere in quanto è in atto, tanto più una realtà è in atto tanto più sarà conoscibile, tanto più sarà verità.
La verità come adeguazione dell’intelletto con la cosa non ammette gradazione: c’è o no; mentre “se si considera l’esse della cosa, che è la ragione della verità, allora la disposizione delle cose nell’essere e nella verità è la stessa: pertanto ciò che è più ente è più verità”[13].
Asserendo quindi che la sorgente della verità è l’essere, possiamo affermare che le cose finite non sono l’essere ma partecipano dell’essere e nello stesso modo non sono la verità ma partecipano della verità.
Essendo ogni ente composto da potenza ed atto possiamo dire che tanto più un ente è potenziale tanto meno è vero. Solo l’Atto puro è la Verità piena ed illuminata; per questo la ricerca della verità trova la sua soluzione solo nell’Ipsum Esse Subsistens.
Il linguaggio dell’uomo riesce ad essere illuminante solo quando i concetti da lui espressi sono in relazione con la Verità Prima.
La mente umana, infatti, agisce secondo due diversi principi:
Dio, origine della verità delle cose create (Verità prima);
volontà di colui che conosce.
Quindi il linguaggio umano, se è unione dei due precedenti principi, è insieme locuzione ed illuminazione; se invece rispecchia solo la volontà di colui che conosce è solo locuzione.
Le opinioni degli uomini pertanto non sono fonte chiara di verità.
Per avanzare verso la conoscenza della verità, come dice San Tommaso, bisogna cercare di cogliere la verità delle cose.
4. La Verità e la Conoscenza.
Per capire in quale momento conoscitivo avviene l’adeguazione del soggetto che conosce con la cosa conosciuta bisogna premettere che l’adeguazione deve essere un’adeguazione conosciuta, cioè l’adeguazione non deve essere solo posseduta dal soggetto ma deve essere da esso conosciuta.
Solo in questo caso possiamo definire la verità logica o formale, cioè la verità relativa alla conoscenza: al logos.
E’ detta verità ontologica o materiale, invece, la verità relativa alle cose.
Quindi in sintesi:
la verità ontologica è qualcosa che ogni ente possiede in quanto è intelligibile;
la verità logica, essendo relativa alla conoscenza, consiste nell’insieme degli atti di apprendere che hanno per oggetto ciò che le cose sono.
La verità logica, in senso proprio, non risiede nella conoscenza sensibile, in quanto l’adeguazione che si trova nei sensi non può definirsi verità perché non è posseduta da essi in termini conoscitivi; per esempio l’udito non sa di sentire, esso conosce solo i suoni.
I sensi non sono in grado di conoscere il rapporto tra la cosa, da loro conosciuta, e ciò che tale conoscenza comporta; cioè non sono in grado di conoscere l’adeguazione tra la cosa e ciò che della cosa si riesce a cogliere.
La verità logica, secondo i criteri citati, risiede quindi nell’intelletto, anche se non si compie nella fase della prima operazione della mente (semplice apprensione) nella quale si conosce l’essenza o quiddità della cosa. In questa fase, infatti, cogliendo l’essenza si forma il concetto corrispondente, ma non c’è ancora adeguazione tra il concetto che si è formato e ciò che esso rappresenta.
Il concetto è una specie rappresentativa semplice in quanto apprende l’essenza della cosa confrontandola con la cosa stessa e non con altre.
Il concetto quindi in sé non è né vero e né falso mentre l’intelletto che apprende l’essenza di una cosa è di per sé vero ma può essere anche falso accidentalmente.
Quindi si può dichiarare che nella conoscenza sensibile e nella semplice apprensione vi è solo adeguazione tra la potenzialità del conoscere e le cose. Tale adeguazione è di tipo implicito, cioè non c’è consapevolezza della relazione esistente tra il concetto e ciò che esso rappresenta.
Solo nel giudizio l’intelligenza può conoscere tale adeguazione in modo formale ed esplicito.
La verità logica come si trova principalmente nell’intelligenza e non nelle cose, così si trova principalmente nell’intelletto nel momento che giudica e non nel momento che apprende l’essenza delle cose. Solo allora l’intelletto conosce e dice il vero.
Visto che l’intelletto può essere vero o falso solo se esprime un giudizio su una cosa conosciuta, possiamo dire che prioritariamente la verità risiede nella capacità di composizione e divisione dell’intelletto (nel giudizio) e con posterità risiede nell’intelletto nel momento che elabora i concetti (nella semplice apprensione)
Per avere, quindi, una completa adeguazione è necessario che essa avvenga tra il conoscente ed il conosciuto quando entrambi sono in atto e questo avviene soltanto nel giudizio perché nella fase dell’apprensione semplice l’intelletto è ancora in una fase potenziale rispetto all’essere della cosa.
Nella fase del giudizio, l’intelletto riesce realmente a capire se la cosa corrisponde a ciò che esprime. Solo allora si può parlare di “vera” conoscenza proprio perché il giudizio contiene il riferimento all’essere reale della cosa.
Nel giudizio c’è la dichiarazione della verità o falsità della cosa.
L’apprensione semplice dà alla mente solo una somiglianza della cosa conosciuta mentre il giudizio possiede la somiglianza e riflettendo su di essa, quindi, riesce a giudicarla vera o falsa.
L’intelletto, nella fase del giudizio, può pertanto vedere la conformità tra la cosa ed il concetto e, quindi, sa di conoscere la cosa reale.
5. Conclusioni
La teoria realista della verità, come visto, si fonda su due elementi essenziali: l’adeguazione e la riflessione, condizioni necessarie e sufficienti per la conoscenza della verità logica.
Il legame tra adeguazione e riflessione viene mirabilmente descritto da San Tommaso, quando nel De Veritate afferma che l’intelletto conosce la verità in quanto, per mezzo di essa, riflette su se stesso; cioè la vera conoscenza fa si che, mediante il giudizio, l’intelletto ritorni su sé stesso: la reditio.
Infatti l’intelletto per conoscere qualcosa all’esterno deve uscire da sé ma la consapevolezza di conoscere lo fa ritornare verso di sé e ciò avviene sia perché l’atto di conoscere è intermedio tra conoscente e conosciuto, sia in quanto l’intelletto conosce la propria essenza.
Tale processo è completo però solo nelle sostanza più perfette, cioè in quelle intellettuali.
In questa reditione completa risiede la conoscenza della natura dell’intelletto e del processo conoscitivo e tale conoscenza permette di conformarsi alle cose.
Nella filosofia contemporanea non si è riusciti a trovare il modo di coniugare l’adeguazione con la riflessione ma si è spesso ragionato in termini di singolo elemento perdendo la possibilità di arrivare alla nozione di verità.
Ciò è accaduto soprattutto nella filosofia logico-linguistica e nell’ermeneutica esistenziale.
Il positivismo logico ad esempio ha privilegiato l’adeguazione mentre l’ermeneutica la riflessione.
Questo alternarsi di utilizzo dei due elementi si riscontra anche nell’attuale contesto culturale che oscilla tra positivismo e soggettivismo antropocentrico, anche se qualche cenno di risveglio comincia ad avvertirsi.
Purtroppo ciò che si perde è la capacità dell’uomo di conoscere la verità in tutta la sua più ampia dimensione.
Senza una visione metafisica è impossibile cogliere la perfetta armonia che esiste tra conoscenza ed essere.
Del resto la verità è una realtà fondamentale che esiste al di là del nostro intelletto umano.
Essa deve essere guida e maestra in quanto la nostra felicità consiste nel raggiungimento e nella contemplazione della Verità piena:
“vedi, la Verità stessa è pronta per te,
abbracciala se puoi, gioiscine e prova diletto nel Signore,
ed Egli esaudirà i desideri del tuo cuore” [14]

[1] San Tommaso, De Veritate.
[2] Aristotele, De Anima, III libro.
[3] Cioè “ad immagine di”, come insegna la Psicologia.
[4] San Tommaso, De Veritate, q.1, a.1.
[5] San Tommaso, De Veritate, q.1, a.2.
[6] San Tommaso, Summa Teologica, I-II, q.3, a.5, ad 1.
[7] S. S. Giovanni Paolo II ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze, Roma 22 ottobre 1996.
[8] Infatti ciò che si appetisce è costituito dalle cose in quanto reali non in quanto conosciute.
[9] E’ il concetto attuale psico-etologico del feed-back (Cf. Von Uexkull, J., Fischer, Stuttgard 1972).
[10] San Tommaso, In I Sent., d.19, q.5, a.1.
[11] Llano A , Filosofia della Conoscenza, Le Monnier, Firenze, 1987.
[12] San Tommaso, De Veritate, q.10, a.12, ad 3.
[13] San Tommaso, De Caritate, q.1, a.9, ad 1.
[14] Sant’Agostino, De Libero Arbitrio, 2, 13, 35.